I compiti dei comunisti italiani nel 2018

Per certi versi, con le ultime elezioni del 2018, ci troviamo davanti ad una fase epocale della sinistra classista italiana. Oserei dire “metafisica”. Una di quelle date, che almeno nel nostro paese, segnano la conclusione di un ciclo storico su cui teorizzare e fare politica. Con il recente turno elettorale la maggioranza delle compagini della sinistra classista hanno fallito completamente nello scopo propagandistico a cui avevano delegato la loro autorappresentazione soggettiva. Nel merito, se riteniamo il PCL l’erede e l’interprete della più genuina ed efficace critica comunista, nonché la costruzione pratica più avanzata dell’opposizione partitica al sistema, possiamo dire allora che alla luce dei suoi risultati conseguiti alle elezioni è finita veramente una stagione. Penso, prima di entrare nelle radici dell’analisi sopra anticipata rapidamente, sia opportuno dichiarare che il nostro pensiero è figlio della logica del “martello”, ovvero ha la sfrontatezza e la consapevolezza che i suoi assunti possano terremotare lo scenario politico classista, ma al contempo non è vittima del soggettivismo e della morale spirituale della forza della volontà, anzi nel dichiarare la fine di un epoca della storia ci appoggiamo su solide basi oggettive e strutturali dell’andamento del capitale.

Bene, entriamo ad analizzare la fine di una certa sinistra classista in Italia, ovvero la fine del PCL. Il compito storico che ha assunto il comunismo, e quindi anche quel partito, da dopo l’89 è stato quello di sopravvivere e o interpretare un altro cataclisma annunciato, ovvero il rovinoso capolinea del socialismo sovietico con il suo portato valoriale ed effettivo sul piano oggettivo e soggettivo presso la classe operaia. Lo dico senza polemica e riconoscendone i meriti, questi partiti sono stati degli ottimi esegeti di una sconfitta, hanno educato tanti militanti fornendo loro la strumentazione opportuna per analizzare la loro crescente irrilevanza nello scenario politico. Hanno saputo denunciare in tutti i loro passaggi i tradimenti della sinistra sindacale e politica e di conseguenza spiegare la passività e l’arretratezza della classe operaia. In più, hanno avuto il merito di “resistere” in una fase espansiva e globalizzante del capitale. Di fatto hanno subito l’affronto di diventare minoranza culturale in una fase in cui il comunismo di massa non era più ritenuto uno strumento comune e condiviso dalla classe. In ultima analisi i partiti post 89 pur denunciandone in tempi non sospetti le malefatte, loro malgrado, hanno dovuto subire e spiegare la fine rovinosa dello stalinismo, nonché l’avvento rampante del suo “gemello” teorico, il riformismo.

Ma poi è successo un fatto che ha reso obsoleto tutto e poco credibile questi partiti. La crisi dell’2008. Non intuire che nella crisi non si segnava solo la debolezza soggettiva dei partiti della classe ma soprattutto un’intrinseca gracilità del capitale è stato un errore di valutazione che li ha portati alla passività e arretratezza teorica, e a concedere al padronato spazio per ogni tipo di sperimentazione politica, anche la più reazionaria, presso le masse popolari.

Ma ancor di più c’è un difetto di costruzione del partito, strumento necessario per la rivoluzione, legato alla dialettica in ordine ai rapporti con la classe operaia. In pratica si è deciso che questi partiti rappresentavano l’autocoscienza della classe operaia e il loro modo di essere in rapporto alla borghesia. Così si è creato un ciclo involutivo dove vittime e carnefici si mischiano e si richiamano. Un partito che ha decretato l’impossibilità di lottare, non partecipa e non organizza le lotte stesse, così le masse si passivizzano e accettano la sconfitta. Quelle poche lotte vengono accusate da quadri politici esterni ad esse di non essere generalizzate e di non seguire una grammatica classica legata alla loro apertura all’interezza della classe, quindi di fatto vengono marginalizzate e analizzate con supponenza. Il ciclo si chiude con il notare come di fatto la passività di un partito è il corrispettivo della passività della classe operaia. Non basta aver denunciato con precisione quello che non dovevano fare altri. In tempo di crisi del capitale era necessario non fare critica letteraria ma organizzarsi, anche come minoranza, per attaccarlo. La questione non è la mancata generalizzazione delle lotte, che non sarà mai un evento messianico e distinto dalla soggettività attiva di un partito della classe, ma come portare alle estreme conseguenze, e quindi approfondire, le contraddizioni del capitale. Da qui la via della generalizzazione delle lotte.

Quindi cosa facciamo? Si, cosa si fa. Non come interpretiamo altri partiti, altri errori, per non fare nulla e restare fermi nella critica letteraria, anche la più genuina e battagliera. A mo’ di slogan diciamo attacchiamo il capitale. Perché ora più che mai è possibile, oltre che necessario. Soprattutto di che ci dotiamo per farlo? Di un partito. Di un partito che cresca dialetticamente con le lotte concrete che si generano nel conflitto perenne tra capitale e lavoro. Un partito che sappia cogliere la scienza intrinseca degli operai in lotta, le loro esigenze e le loro domande di rivolta. Un partito che sappia leggere e superare le contraddizioni della classe operaia, le sue paure e il suo opportunismo. Un partito che organizzi l’unica classe in grado di ribaltare i rapporti, senza sostituirsi alla sua coscienza ed interpretarne autonomamente le sue prospettive. Un partito che in ogni suo intervento pubblico, più schiettamente politico, riporti continuamente le contraddizioni del capitale e le sue enormi debolezze e fragilità, che consegni alla classe operaia la possibilità che esso si può attaccare e non subire.

Abbiamo la necessità di porre con audacia e sfrontatezza la questione del potere. Di teorici della sconfitta non abbiamo più bisogno. Di fautori della strategia della difesa men che meno. Essere all’attacco e rivendicare il potere oggi è possibile. È possibile perché il capitale è giunto in una sua crisi strutturale e globale. È possibile perché prima degli esegeti della passività, ma anche prima di noi che ci pensiamo avanguardia, qualcuno in Italia ha già iniziato a lottare, e a ad ottenere conquiste e vittorie. Ciò non è avvenuto per la loro soggettività o per un eccesso di spirito e coraggio. Perché quelle persone materialmente hanno incrociato un’indubbia debolezza nella fase di accumulazione e produzione del capitale. La questione quindi è costruire un partito che sia presente attivamente nelle recenti lotte della logistica, della casa, della scuola, dei disoccupati e degli immigrati, del movimento femminile e di genere, dei corrieri dell’alimentazione metropolitana. Un partito che approfondisca la crisi e si prepari un ulteriore attacco più generalizzato a partire dalle lotte in cui già è attivo.

In sintesi la nostra storia che sta iniziando, i nostri compiti attuali, devono fungere da critica in essere e analisi attiva di quello che non vogliamo più che sia il partito. Dichiarando la possibilità nel 2018 di essere comunisti che lottano per il potere della classe automaticamente mettiamo in soffitta, ringraziando, un partito, il PCL, e una stagione politica iniziata nell’89. In oltre parafrasando la sentenza di Marx sui filosofi che dice che “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo”, dichiariamo che è finita per i partiti della crisi e della passività il compito di interpretare “in modi diversi il potere della borghesia”, ora per noi è il momento di mutarlo quel potere, anzi di abbatterlo.Statuto dei Lavoratori

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